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  • Immagine del redattoreAlessandra Celentano

Il 25 novembre e poi...

Nel 1999 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha designato il 25 novembre come Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Questa la data per Governi e organizzazioni internazionali per promuovere e sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema.Il 25 novembre è stato scelto in ricordo del brutale omicidio delle tre sorelle Mirabal, attiviste politiche della Repubblica Domenicale. Le tre donne furono stuprate, torturate e uccise, violenza di genere come repressione di Stato.Dal rapporto Eures, la violenza delle donne è in aumento: solo nel 2018 sono state uccise 142 donne (nel 85% dei casi i delitti avvengono in famiglia), l'1% in più del 2017e sono in aumento, rispetto al 2017, anche i reati di violenza sessuale (più 5,4%), stalking (più 4,4%) e maltrattamenti in famiglia (più 11,7%).Ma cos'è la violenza domestica nel contesto della violenza di genere?


La Convenzione di Istanbul la definisce come: «tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima».La violenza domestica ha una diffusione “democratica” all’interno delle diverse fasce sociali e può assumere forme differenti. La violenza psicologica (fatta di intimidazioni, svalutazioni continue, isolamento da parenti e amici, mira alla destrutturazione dell'impianto emotivo della vittima oltre che al renderla sottomessa e plagiata) accompagna e precede sempre la violenza fisica, più evidente nelle sue manifestazioni. Con queste, poi, possono concretarsi anche la violenza sessuale e quella economica (privazione dello stipendio, controllo ossessivo delle spese ecc), il tutto per rendere la donna succube e dipendente dal marito/compagno in un'ottica della relazione come possesso dell'altro. La violenza domestica si compone dunque non tanto di episodi sporadici quanto più di un percorso fatto di escaletion che diviene dunque modalità relazionale.Il timore di non essere creduta, la paura di inasprire la reazione del partner e la speranza di cambiarlo, la rassegnazione e il senso di fallimento personale e sociale, impediscono alle vittime di abbandonare la spirale della violenza.Riuscire a chiedere aiuto non è mai un percorso semplice o veloce.


Sono tanti i bisogni che emergono durante il percorso di fuori uscita dalla violenza: il bisogno di giustizia, di essere accolte, credute, protette, ascoltate; il bisogno di riprendere autonomia e di ricostruire un'identità a tutto tondo.La complessità di tale fenomeno dunque sfugge all'inquadramento che il sistema penale da del problema sia per l'accoglienza e l'ascolto della vittima sia che per la rieducazione del reo che troppo spesso si vede inflitta una pena senza alcun effetto concreto sulla propria rieducazione o conoscenza di se stesso.Dunque appare importante aprire una riflessione sull'uomo maltrattamente, sulle dinamiche criminogeniche e sui possibili percorsi trattamentali attivabili che possano però leggere la violenza di genere non solo come il risultato dei tratti psicopatologici del reo ma anche come il risultato degli stereotipi di genere in lui radicati. É auspicabile dunque la coesistenza di un lavoro psicoterapeutico ed insieme culturale che guardi al riesame critico degli agiti e alla possibilità di incrementare l'empatia con la vittima.


Sembrerebbe dunque che la sola rappresentazione dell'iter del procedimento penale non basti: «il limite dell’orizzonte giuridico ed asfitticamente endopenalistico dell’essere responsabili solo rispetto alla legge» (MANNOZZI, La reintegrazione sociale del condannato tra rieducazione, riparazione ed empatia, commento a Trib. Sorveglianza di Venezia, ord. 7 gennaio 2012, n. 5, in Dir. pen. proc., 2012, p. 842) per quanto negli ultimi anni gli strumenti normativi adottati dalle Istituzioni Internazionali per combattere tale fenomeno siano stati numerosi. In Italia la norma cardine in tema di violenza domestica è rappresentata dall’art. 572 c.p. che punisce le condotte di maltrattamenti contro familiari o conviventi (F. M. ZANASI, Violenza in famiglia e stalking) apportando una modifica importante del sistema. Alle tutele penalistiche si affiancano quelle amministrative in materia di diritto di famiglia per le donne vittime di violenza ma allora come mai le tutele per le donne vittima di violenza questo fenomeno è ancora in aumento? Il solo sistema giudiziario penale così come è pensato può bastare come risposta? Sembrerebbe di no. Le vittime devono fronteggiare un modello di giustizia altamente burocratizzato che rende difficile l’instaurarsi di un rapporto di fiducia con le istituzioni.


Le donne raccontano spesso come la parte successiva alla denuncia sia vittimizzazione secondaria che comprende i danni che «derivano dalle risposte che offrono le costruzioni sociali preposte alla tutela della vittime: il mancato riconoscimento della condizione della vittima, la frustrazione delle aspettative e la reazione sociale all’evento possono incidere sull’immagine che la persona ha di sé e sul proprio contesto relazionale» (M.S.Lembo, P.De Pasquali. A. Casale, Vittime di crimini violenti. Aspetti giuridici, psicologici, psichiatrici, medico-legali, sociologici e criminologici, Rimini, 2014, pp. 23 ss .). Ad oggi sembrerebbe però che se l’applicazione di una pena può dare una seppure parziale risposta di protezione alle vittime, non è invece in grado di imprimere nel reo un monito profondo che ne favorisca la rieducazione, né di assicurare alla donna, nonché alla collettività, garanzie circa il contenimento del rischio di recidiva.


Da qui negli ultimi decenni gli operatori si stanno confrontando su quello che può essere una giustizia diversa: riparativa.Senz'altro la giustizia riparativa ha una dimensione multidisciplinare che di per sé già risulta essere di grande interesse per il coninvolgimento del sapere giuridico, criminologico, sociologico, antropologico e della psicologia sociale che mantengono uno sguardo alla complessità della realtà.Il tentativo auspicabile della giustizia riparativa è che diventi una cultura e un movimento che coinvolga in maniera pervasiva i diversi contesti del vivere in comunità (famiglia, scuola, ambiente lavorativo) dove la gestione del conflitto avvenga sempre su ascolto, dialogo e corresponsabilizzazione, nella misura in cui la risposta riparativa ha azione anche preventiva oltre che risolutiva.

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